Inutilmente, il viaggiatore che arriva in Cambogia cerca tracce evidenti di quei 3 anni, 8 mesi e 20 giorni che sono stati chiamati il "regime di Pol Pot" o dei "Khmer rossi". Quest'ultimo termine è anzi quasi sconosciuto alla quasi totalità dei Cambogiani. Fu coniato da Sihanouk nel corso di un’intervista e fu reso celebre dai giornalisti. Oggi lo usa qualche persona acculturata ma se mai un cambogiano accettasse di ricordare quel periodo parlerebbe sempre di "quei 3 anni, 8 mesi e 20 giorni". Ma nessun cambogiano ama parlarne e non è bello che uno straniero insista con troppe domande.
Non è un modo di esorcizzare il passato: è un modo di essere e pensare da buddhista. Nel 1996, Ieng Sary il cognato di Pol Pot e ministro degli Esteri del governo dei Khmer rossi fu graziato e tornò a Phnom Penh. Chiese e ottenne di avere un colloquio con il grande Venerabile, il patriarca dei bonzi cambogiani. Negli ambienti occidentali della capitale si gridò allo scandalo: non era possibile che un sant’uomo come il Venerabile concedesse udienza a un uomo le cui mani erano "lorde di sangue". Per far tacere la polemica, il Venerabile uscì dal suo riserbo e spiegò che se Ieng Sary era colpevole dei crimini che gli si imputavano, ciò avrebbe pesato sul suo kharma. Suo compito era dare consigli e ammaestramenti sulla vita da compiere, non giudicare la vita passata. Ciò che è accaduto è ormai passato. Le sue conseguenze influiranno sulle esistenze future. Tutto il popolo cambogiano è permeato di questa filosofia di vita. E' il loro stesso credo religioso che lo richiede. Tutto ciò lascia abbastanza esterrefatti noi occidentali, ma questo é il modo in cui i Cambogiani vivono il loro stesso quotidiano.
La cultura del XXI secolo ha ormai preso piede in Phnom Penh e nei centri turistici e il resto del paese non ne é rimasto totalmente escluso perché, anche nelle più sperdute campagne, ben poche sono le case spesso con il tetto di paglia su cui non si leva l'antenna di un televisore che spesso funziona a batterie perché non ci sono collegamenti elettrici e sono milioni gli Smartphone collegati a Internet. Così, la gente ha cambiato alcuni atteggiamenti e sembra più vicina al modo di vivere occidentale ma questo non ha mutato assolutamente il loro modo di pensare e di affrontare le vicende della vita.
I Cambogiani non sembrano molto religiosi. Scarsi sono i fedeli che si vedono davanti agli altari. I monaci mendicanti nelle strade sono oggetto del massimo rispetto ma non sono mai circondati da una aureola di sacralità. Le pagode non hanno alcuna sontuosità e i monasteri ostentano una dignitosa povertà.
Non c'è però casa cambogiana ove non ci sia un altare con una effige del Buddha davanti alla quale ogni sera vengono accese le bacchette di incenso. Non esiste cambogiano, pur povero, che rifiuti un'elemosina o del cibo a chi lo chiede, anzi, spesso ringrazia il mendicante perché gli offre l’occasione di compiere un atto di “merito” che migliorerà il suo karma. Non c'é famiglia che in occasione dei giorni santi non indossi gli abiti migliori e si rechi alla pagoda per partecipare ai riti comunitari.
E' antica consuetudine che tutti si inchinino profondamente davanti al re, ma il re si inchina ancor più profondamente davanti a un monaco. Alla radio sono trasmessi programmi musicali di ogni genere, ma nei quattro giorni "santi" del mese si sente il salmodiare dei monaci. Sugli schermi televisivi si rincorrono le telenovela, i giochi a premi, i polizieschi made in Hong Kong, ma non è strano incontrare talora le immagini di una cerimonia religiosa o la predica di un gran venerabile.
La religione non è materia di insegnamento nelle scuole, ma non ne ha la necessità perché i suoi fondamenti vengono trasmessi già all'interno della famiglia con gli atti e con i comportamenti, in modo tale che diventano un patrimonio quasi genetico.
Questo profondo sentire religioso non ha però alcuna influenza sul vivere sociale perché il buddhismo del Theraveda impone alcuni divieti di ordine etico ma non suscita alcun sentimento bigotto. Le stesse ricorrenze religiose sono celebrate da tutti con sincero rispetto del sacro e della tradizione ma anche con quella gioiosa allegria che le fa essere veramente delle feste, anzi delle grandi feste popolari, molto più sentite e vissute con entusiasmo di quanto lo siano le numerose ricorrenze civili.
La religiosità khmer
Pressoché tutti i monumenti di Angkor sono dei grandiosi templi eretti in onore delle divinità del pantheon induista. Fino a metà del XIV secolo il culto veniva celebrato sull'alto dei maestosi templi-montagna davanti al sacro linga, il simbolo della potenza fecondatrice del dio Shiva. Era il rito del deva-rajah con il quale gli imperatori khmer affermavano la sacralità della loro persona e l'origine divina dell'istituto imperiale. La religione era il substrato spirituale sul quale poggiava il potere politico.
Era perciò una religione lontana dai pensieri, dai problemi, dalle ansie e dalle aspettative della gente del popolo. I sontuosi idoli di bronzo dorato di Shiva o Vishnu davano forza e prosperità all'Impero ma non rispondevano alle richieste di aiuto dell'umile contadino che di quegli dei spesso ignorava anche il nome.
A quelle onnipotenti divinità che proteggevano la città e il suo imperatore, il popolo portava un infinito rispetto ma riponeva la sua fede e volgeva le sue preghiere ai geni che abitano le risaie, i fiumi, gli alberi. Nessun sacerdote aveva mai spiegato chi fossero queste misteriose entità sovrannaturali, né quale culto si dovesse loro rivolgere. Erano cose che la gente del popolo aveva sempre saputo perché erano state raccontate dagli anziani che le avevano sentite raccontare dai loro progenitori i quali le avevano apprese da altri più anziani di loro, e così via fino alle origini del mondo. Erano spiriti conosciuti, ai quali ci si poteva rivolgere facendo modeste offerte perché tenessero lontane le malattie, proteggessero la casa, facessero dono di raccolti abbondanti.
Questa era la religione del popolo khmer ai tempi di Angkor. Era un credo molto semplice e legato ai bisogni della vita. Era una fede che, però, non dava speranze di fronte alla morte la cui ineluttabilità era certa. L'uomo, anche il più umile e incolto, sente questa angoscia e si pone delle domande. Né gli spiriti della risaia o del fiume, né gli idoli in bronzo dei templi potevano dare una risposta.
Solo l'insegnamento del Buddha, portato dai monaci missionari del XIV secolo, offrì delle speranze. Il popolo khmer accolse la nuova fede che gli appariva anche fisicamente vicina. Non c'erano sacerdoti che celebravano complicati riti, c'erano solo parole su cui meditare. Non sorgevano immensi templi in pietra, si costruivano modeste pagode di legno. Non si commemoravano le epiche battaglie degli dei, si predicava la pace e l'amore fra tutti gli esseri. Così il buddhismo penetrò nell'animo del popolo khmer che non abbandonò però il culto di quegli spiriti che lo proteggevano e lo aiutavano nelle avversità della vita quotidiana
Il mondo degli spiriti: i Neak ta
L'uomo che vive a stretto contatto con la natura e vede che da questa, dalle sue forze e dai suoi capricci, dipende la sua esistenza stessa, cerca di rendersela favorevole e per fare ciò deve immaginarla dotata di uno spirito cui fare offerte e tributare onori perché si mostri benevolo.
E' un processo mentale antico quanto il mondo: l'uomo deve rendere "visibile" il divino per poterlo capire e stabilire un rapporto. Lo spirito da cui dipende la vita del contadino è il genio che abita il territorio. In cambogiano si chiama neak ta che letteralmente significa "individuo progenitore" ed è lo spirito del fondatore del villaggio che può proteggere dalle malattie, far cadere le piogge nei tempi giusti, dare dei buoni raccolti, difendere le case da ladri e incendi.
E' uno spirito benefico e abita in mezzo agli uomini in una casetta posta su un palo e riparata dalle fronde di un albero. Vuole però essere rispettato e onorato. Ha bisogno delle stesse cose degli uomini, bisogna quindi offrirgli un po' di riso, dei frutti, delle sigarette e ingraziarselo accendendo per lui candele e bacchette d'incenso.
Non tutti gli spiriti però sono così benevoli. Gli spiriti di coloro che sono morti per un fatto accidentale, dei suicidi, degli annegati, delle donne morte di parto, di coloro il cui cadavere é rimasto insepolto o non cremato, vagano senza pace e tormentano i viventi. Sono dei fantasmi che si aggirano nelle tenebre e, per tenerli lontano dal loro sonno, i Cambogiani hanno l'abitudine di tenere una piccola luce accesa vicino al letto. Quando qualcuno è perseguitato da uno di questi spiriti, che sono anche apportatori di malattie, non ha altra via che rivolgersi a un medium che interroga lo spirito per sapere con quali offerte vuole essere placato.
Il buddhismo ufficiale tollera questi culti, anche se non può canonizzarlo, ed esso è talmente radicato nell'animo khmer che nel cortile di ogni pagoda c'è la casetta in legno, colma di offerte, in cui abita il neak ta protettore del luogo.