Dopo la morte di Suryavarman II la seconda metà del XII secolo fu uno dei periodi più tragici nella storia dell'Impero, salvo i dieci anni di regno dell'immediato successore Dharaindravarman II che ultimò i lavori di Banteay Samré. Si giunge al tempio dal lato est e già da lontano si vede delinearsi l'elegante profilo dell'unico prasat che sorge al centro della struttura la cui pianta contempla tre cortili concentrici. Del primo e della sua cinta muraria non restano che poche tracce. Il secondo cortile è circondato da un muro che originariamente sosteneva una galleria di 83 metri per 77. Di qui, attraverso un gopura a tre corpi, si accede alla galleria in laterite che racchiude il cortile centrale che misura soli 44 metri per 35. Questo limitato spazio pare quasi con difficoltà contenere le due eleganti biblioteche e il corpo centrale del santuario al quale si giunge passando dal gopura orientale che conduce direttamente a una lunga sala che è come un vestibolo che si apre sull'ingresso del prasat. E' una disposizione delle strutture che deriva direttamente da quelle analoghe di Beng Mealea e del Thommanon. Prossima sembra la lezione stilistica di Angkor Vat se si osserva il profilo del prasat che domina sul tempio da un'altezza di 21 metri. Lo slancio verticale è veramente notevole ed è accentuato dai doppi frontoni triangolari sovrapposti che dominano l'ingresso e le tre false porte. Se la componente architettonica è rimarchevole, di assoluta eccellenza è l'esecuzione delle decorazioni e la scultura dei bassorilievi su architravi e frontoni. L'iconografia é prevalentemente vishnuista ma non è formale né ripetitiva. Ogni tema è sviluppato con originale ispirazione e i personaggi risaltano con grande incisività grazie forse al fatto che, anticipando una caratteristica dell'arte del periodo di Jayavarman VII, la scultura dei bassorilievi è ben marcata e profonda. Con Banteay Samré ha termine il periodo della storia dell'arte khmer conosciuto come stile di Angkor Vat e finisce brutalmente anche un periodo storico. Alla morte di Dharaindravarman II fanno seguito anni insanguinati dall'usurpazione, il regicidio, la feroce invasione cham, le distruzioni e l'occupazione, fino alla guerra di liberazione con la vittoria per mano di Jayavarman VII, che poi iniziò la ricostruzione.
La prima opera cui mise mano fu il Prah Khan e fece edificare questa struttura ancor prima di essere consacrato imperatore nel 1181. Pare che questo sia il luogo in cui visse mentre venivano eseguiti i lavori di fortificazione della cittadella di Angkor Thom. Le dimensioni del complesso sono notevoli: le mura hanno un perimetro di 3 chilometri e la stele rammenta che quasi 98.000 persone vivevano all' interno del Prah Khan o nelle sue prossimità. La struttura del corpo centrale, chiuso da un muro in laterite di 175 metri per 200, presenta caratteristiche tali da poter essere oltre che un santuario anche un palazzo a uso civile. Davanti al Prah Khan ora non ci sono che campi e rada vegetazione ma un tempo qui si stendevano le acque del Baray settentrionale, largo 900 metri e lungo 3 chilometri e mezzo, e una terrazza di cui non resta che qualche vestigia era il punto di approdo delle barche reali. Dalla cinta esterna parte un viale lungo un centinaio di metri, fiancheggiato da steli in pietra, che poi diventa una massicciata la cui balaustra è formata di deva e asura che sostengono il corpo di un naga policefalo e che termina al gopura. Ai lati troneggiano altorilievi alti cinque metri di Garuda, la combattiva cavalcatura di Vishnu, e a conferma del fatto che Prah Khan oltre che un santuario era anche una cittadella il passaggio centrale è al livello del suolo per consentire il transito di carri e elefanti. Poco oltre si scorge l'ampio corpo della struttura in arenaria di una di quelle 121 case con del fuoco che erano poste lungo le grandi vie o in prossimità dei monasteri. Si giunge infine all' ampia terrazza che precede il maestoso gopura della terza cinta la cui vista è resa indimenticabile dal secolare albero che nasce dalle pietre della volta. Il gopura occupa ben 100 dei 175 metri del muro di cinta e si apre con cinque porte su un chiostro cruciforme la cui sala centrale era probabilmente usata per le esibizioni del balletto sacro come starebbero a indicare i delicati fregi con figure di apsara. Uscendo sul lato Nord, di fronte a una terrazza in laterite si vede un singolare edificio poggiante su alte colonne tonde. Due strutture analoghe si trovano al Ta Prohm e a Banteay Kdei. E' una costruzione atipica, con finestre ma priva di scala di accesso, e si sono posti molti interrogativi sulla sua destinazione: potrebbe essere stata una residenza reale. Rientrando nel chiostro si imbocca la lunga galleria che fa da asse centrale al monastero e sulla quale si aprono finestre, porte, brevi gallerie e spazi simmetrici volti a sud e a nord. Arrivati alla seconda cinta si entra in uno stretto passaggio che conduce al cortile centrale che è saturo di piccole costruzioni la cui destinazione cultuale non è chiara e che alcuni hanno chiamato "tombe di famiglia". L'ingombro di plurime costruzioni, le alte pareti e le ridotte dimensioni della galleria non consentono di avere una vista di prospettiva del prasat al quale si accede da un vestibolo le cui pareti sono disseminate di fori che si ripetono anche sulle pareti del santuario e che dovevano sostenere dei pannelli decorativi. Questo è il punto di incontro delle quattro gallerie principali, orientate sui punti cardinali. Il suolo è occupato da un maldestro stupa edificato in tempi posteriori. L'alta volta con il gioco di blocchi di arenaria sovrapposti in un per noi precario equilibrio offre uno spettacolo di primitività quasi "nuragica", ma si deve immaginare questa cella chiusa in alto da una soffittatura in legno scolpito e con le pareti rivestite da preziosi pannelli in legno o in metallo, sostenuti da tasselli inseriti nei fori circolari dei muri. Seguendo la galleria ovest si ritrova la stessa disposizione del lato est e si giunge al gopura della terza cinta la cui sala centrale stupisce per le dimensioni dello spazio coperto, ottenuto realizzando una specie di doppia volta su una pianta a croce. La struttura in pietra è tanto austera e possente da quasi inghiottire il visitatore il quale deve però riservare la sua attenzione anche ai particolari della decorazione muraria che è di stupefacente varietà iconografica e di marcato realismo espressivo. Le apsara danzano con una vivacità che le rende quasi reali, le devata hanno una austera bellezza che le fa apparire veramente divine, i dvarapala si stagliano nella pietra con una forza più da guerrieri che da guardiani celesti. Molte cose però lasciano perplesso il visitatore che giá ha ammirato la perfezione classica di Angkor Vat. I blocchi di arenaria non sono perfettamente squadrati né levigati e sono posti uno sull'altro senza alcun ordine. Le finestre sono false finestre con le colonne non tornite ma solo scolpite a mezza pietra per una breve altezza con il resto del riquadro liscio come se fosse una tenda semi calata. Le porte sono di dimensioni ridotte e spoglie di ogni maestosità. Parrebbe un'opera arcaica rispetto a Angkor Vat o al Baphuon. Anche gli archeologi fino alla metà degli anni '30 furono convinti che i monumenti dello stile del Bayon erano di circa un secolo antecedenti alle opere di Suryavarman II. Molte ragioni spiegano l'errata valutazione e prima di tutto bisogna pensare al breve tempo in cui la ricostruzione fu compiuta. Grandi risorse dovevano essere impiegate per opere prioritarie, come i baray, i canali e le strade. L'occupazione cham aveva lasciato cumuli di rovine, molte costruzioni erano crollate e i blocchi di arenaria erano sparsi ovunque. Si fece quindi ampio ricorso a materiale di recupero e non sono poche le pietre che conservano sul retro tracce di precedenti sculture. In ogni caso gli Khmer erano maestri nell'arte dell'arredo delle strutture murarie che ricoprivano con stucchi, tessuti, rivestimenti in legno e lastre di metalli pregiati. Al tempo di Jayavarman VII i monumenti non avevano quindi il volto un po' dimesso con cui li vediamo oggi.
Approfittando della mancanza di ogni opera difensiva i Cham non avevano incontrato difficoltà nel penetrare nel cuore di Angkor perché la capitale non aveva una cinta fortificata e una semplice alzata di terra ne delimitava i confini. Jayavarman VII si pose subito il problema di proteggere con mura inespugnabili il palazzo Reale, i principali edifici pubblici, i templi più importanti e le residenze di principi e membri della corte. Fece scavare un fossato largo un centinaio di metri che delimitava un quadrilatero di 3 chilometri di lato difeso da uno spesso muro in laterite alto più di 6 metri. Con la terra di scavo del fossato fece costruire un largo terrapieno interno che rinforzava il muro e consentiva un veloce spostamento di uomini e carri su tutto il perimetro difensivo. Centro della città era il tempio del Bayon da cui partivano quattro viali orientati sui punti cardinali e che solcavano le mura con monumentali portali. Un quinto viale partiva dall'ingresso del palazzo Reale e giungeva alla Porta della Vittoria, posta 500 metri a Nord della Porta orientale.
Generalmente la visita più accurata si riserva alla Porta Sud che è posta sulla strada che viene da Angkor Vat e che ha beneficiato di un buon lavoro di restauro. Si attraversa il fossato su una massicciata le cui balaustre sono due schiere di divinità, una di 54 deva e quella opposta di altrettanti asura, che reggono il corpo di un naga a plurime teste. Si ripete la simbologia del bassorilievo di Angkor Vat adattandolo alle esigenze difensive della città e alla sua topografia. Appena si pone piede fra queste mistiche balaustre lo sguardo viene catturato dalla vista del maestoso portale a tre torri che si alza per venti metri e culmina con le immagini di tre volti in pietra di tre metri di altezza. Quello centrale si presenta frontalmente, altri due sono di profilo sulle torri laterali, un quarto è posto all'interno sul lato opposto della torre centrale. La grande apertura ogivale dell'ingresso, di 3,5 metri per 7, non appariva così ai tempi di Angkor capitale. Al di sopra dei due battenti in legno delle porte c'erano un architrave e un frontone oggi scomparsi. La ragione di quello che sembra essere stato un furto la spiega il testimone dell' epoca Ceu Ta-kuan che scrive che "al di sopra di ogni porta delle mura ci sono cinque grandi teste in pietra di Buddha i cui volti sono indirizzati verso i quattro punti cardinali, al centro è collocata una delle cinque teste che è ornata con dell'oro". Quindi cinque "teste" e non quattro quante ne vediamo oggi e quella che presumibilmente doveva essere sul frontone scomparso era ornata d'oro. Se l'interno del portale appare austero e spoglio come un corpo di guardia altrettanto non è per le pareti esterne che agli angoli hanno quattro teste di Airavana l'elefante tricefalo che è circondato da figure femminili di oranti e immerge le sue proboscidi in uno stagno in pietra per raccogliere dei fiori di loto. Dalla porta, un viale lungo un chilometro e mezzo conduce al Bayon e proseguendo oltre si arriva alla grande Piazza sulla quale si affacciava il Palazzo reale.
E' facile immaginare che, dopo avere fortificato la cittadella, preoccupazione di Jayavarman VII sia stata quella di restaurare questa struttura che era il simbolo del potere. Le residenze e gli ambienti privati della corte all'interno del muro di cinta erano di legno e tali furono ricostruiti. La parte pubblica con la sala del trono e quelle delle udienze era anch'essa lignea ma poggiava su un basamento in laterite e arenaria la cui primitiva struttura risaliva al X secolo e venne ampliata e ristrutturata. E' la Terrazza degli Elefanti, lunga oltre 300 metri e che deve il nome al bassorilievo che occupa gran parte della facciata dove compare una moltitudine di elefanti impegnati nella caccia. Con loro, scolpito a tutto tondo alle estremità della terrazza, c'è anche Airavana l'elefante tricefalo le cui proboscidi si immergono in un mare di fiori di loto. Una scalinata che è come l'ideale prosecuzione del viale della Porta della Vittoria sale alla parte centrale della terrazza che è sopraelevata rispetto alle due ali laterali ed è qui che, tra naga e leoni in pietra, si alzava il padiglione in legno dorato sotto il quale era posto il trono dell'imperatore. Il sovrano però non sedeva qui solo per presiedere alle parate militari, dall'alto della terrazza assisteva anche alle processioni e alle grandi feste che con autentico realismo sono raffigurate nei bassorilievi del lato nord: partite di polo, corse di carri, spettacoli di acrobati, incontri di lotta. Forse è la memoria delle antiche feste che ha generato nella mente dei Cambogiani il surreale nome di Torri dei danzatori sulla corda o Prasat Sour Prat per le 12 torri allineate ad angolo con il viale della Vittoria di fronte alla Terrazza degli Elefanti. Come è assurdo pensare che queste strutture in laterite siano state costruire per tirare una corda sulla quale far esibire gli acrobati altrettanto poco credibile è la voce raccolta da Ceu Ta-kuan secondo il quale le torri erano usate per una sorta di "giudizio di Dio": i due contendenti si issavano su altrettante torri e vi restavano fino a quattro giorni, quando ne ridiscendevano colui che era in torto veniva colpito da qualche malattia. Oggi, nei nostri giudizi siamo svantaggiati dal fatto di ignorare quali fossero le strutture lignee che completavano l'opera muraria. La più realistica delle ipotesi è quella fatta da M.Glaize il quale, vista anche la collocazione delle torri, afferma che "erano senza alcun dubbio delle logge, riservate a principi o dignitari in occasione di qualche manifestazione che poteva svolgersi nella grande piazza". Molto meno ludica era la destinazione della struttura che sorge a fianco del lato Nord della Terrazza degli Elefanti. E' un massiccio basamento alto 6 metri e lungo 25 rivestito da blocchi di arenaria scolpiti a bassorilievo. Il ritrovamento di una statua in arenaria sulla quale erano cresciute delle muffe indusse qualcuno a pensare che quella era l'immagine di un "re lebbroso" di cui si narra in alcuni racconti popolari. Fu quindi coniato il nome di Terrazza del Re Lebbroso. La statua, ora collocata nel giardino interno del Museo Nazionale di Phnom Penh, non raffigura né un re e tanto meno un lebbroso. E' l'immagine del dio Yama, Giudice dei morti, ed è giusto che fosse posta su quella terrazza costruita a Nord del Palazzo reale perché questo è il luogo in cui la tradizione vuole che si compia il rito di cremazione del re. Il perimetro esterno ha uno sviluppo a più angoli ed è evidente che è stato realizzato usando blocchi di arenaria proveniente da monumenti andati distrutti. Il colore della pietra cui corrisponde un maggiore o minore degrado delle sculture indica che diversa è la qualità dell'arenaria, gialla o rosa o grigia o verde, e diversa quindi è la provenienza. Su sette registri sovrapposti sono scolpite ripetitive immagini di quello che si potrebbe supporre sia un palazzo celeste perché le figure femminili che lo popolano hanno gli abiti, i gioielli, le acconciature e i tratti del volto di devata e di apsara. Parrebbe l'espressione della certezza che il defunto dopo il giudizio di Yama sarà accolto nei palazzi di uno dei 37 paradisi. E' un' ipotesi realistica, ma la complessa personalità di Jayavarman VII complica le cose riservando delle inattese sorprese come quella che trovò H.Marchal nel 1917 quando stava ripulendo la terrazza dagli arbusti e dalla terra accumulatasi. Due metri dietro il bassorilievo esterno ne esisteva un secondo che seguiva il tracciato del primo ma lo spazio fra i due era stato riempito con terra e pietrame pressati per cui fu necessario lavorare di pala e piccone per liberare lo spazio. Alla fine gli archeologi erano sconcertati. Il bassorilievo interno non solo seguiva il profilo di quello esterno ma anche il tema era identico. Anche qui compariva un palazzo popolato da dame e guerrieri, da danzatrici e musicanti, uguali erano gli abiti e le acconciature, medesimi erano gli atteggiamenti ma diversi erano i lineamenti dei volti. Gli uomini, come gli asura, avevano il bulbo oculare sporgente e dei baffi che davano alla bocca una piega che pare malvagia. Le donne avevano dei volti bellissimi, le sopracciglia erano però dritte e quasi uniti in una linea che conferiva ai loro sguardi un atteggiamento altero se non quasi crudele. Anche in questo palazzo sepolto sotto terra si potevano trovare pesci e altri animali e una schiera di brahmani in preghiera. L'immagine più appariscente erano però i naga a nove teste, il Re dei Naga, scolpiti sul registro più basso. Come interpretare tutto questo? Sono state fatte molte sapienti ipotesi che si possono leggere su ogni libro dedicato ad Angkor. Una cosa è comunque certa: il bassorilievo interno fu completato e successivamente lo spazio fra questo e il muro di sostegno di quello esterno venne volutamente riempito e praticamente sigillato. Di chi fu questa volontà? E' uno dei misteri di Angkor che ancora attende di essere svelato.
Sin dalla prima metà del secolo scorso i lavori di disboscamento, di sterramento e restauro avevano restituito a molti templi e al centro di Angkor Thom quell'ordine e simmetria che era una delle caratteristiche della architettura khmer e che era stata cancellata dal prorompere della natura. Questo intervento non fu esente da critiche e molte voci si levarono per protestare chiedendo che i templi fossero lasciati nel naturale stato di abbandono all'abbraccio della vegetazione. La reazione degli archeologi fu violenta. Era guerra aperta, ma anche per valorizzare il lavoro fatto, gli archeologi della Conservatoria decisero di lasciare un tempio pressoché allo stato naturale, effettuando solo il necessario disboscamento per aprire un percorso di visita e puntellando i muri pericolanti. La scelta cadde sul Ta Prohm, il santuario in cui nel 1186 Jayavarman VII aveva fatto porre una statua di Prajnaparamita consacrandola alla memoria della madre. Costruito secondo il modello del Prah Khan di cui ripete la pianta con un asse centrale che attraversa da est a ovest cinque cinte concentriche, era un monastero buddhista di dimensioni imponenti. La cinta esterna misura un chilometro di lunghezza per 700 metri di larghezza e al suo interno, oltre a 18 gran venerabili, 2740 bonzi, 1617 addetti al culto, 615 danzatrici, vivevano anche 66.625 uomini e donne. Pare che possedesse un tesoro in ori, tessuti e pietre preziose di valore incalcolabile. La sua architettura presenta tutte le caratteristiche dello stile del Bayon con i suoi vizi di costruzione, la scarsa cura nelle finizioni, l'apparente disordine strutturale, la povertà del materiale impiegato, ma ha anche il vigore e l'incisività delle decorazioni, la forza espressiva delle immagini umane nei bassorilievi, il possente effetto di una architettura caotica che avvolge il visitatore che si immerge nelle strette gallerie, valica angusti portali, penetra in oscuri abitacoli. L'effetto di questi elementi viene moltiplicato dall'inestricabile intreccio che la natura ha intessuto con le strutture murarie. Gli alberi con le loro tentacolari e mostruose radici appaiono talora come Shiva il distruttore facendo crollare la volta delle gallerie, divellendo il rivestimento in arenaria dei prasat, spaccando i muri più spessi, talora invece sono Vishnu il preservatore che avvolge i templi pericolanti, fá scendere radici che si sostituiscono a colonne crollate, stringe in un abbraccio salvifico le pareti che stanno cadendo. L'opera dell' uomo e la fantasia creatrice della natura si sono fuse in un insieme dove è veramente difficile distinguere dove finisce l'una e dove inizia l'altra. E' quindi impossibile seguire un percorso scandito da gopura, gallerie, cortili e prasat. La visita del Ta Prohm chiede al visitatore lo sforzo di vivere le emozioni che il luogo emana piuttosto che quello di cercare di comprendere la struttura del tempio che comunque bisogna minimamente conoscere per non perdersi in un labirinto di cortili e di gallerieIl gopura della cinta esterna ha le belle forme delle porte a più volti di Angkor Thom, ma di dimensioni ridotte. Le lastre di arenaria che pavimentavano la massicciata sul fossato sono state scalzate dalle radici di piante che sembrano nate dalla pietra. La galleria esterna è crollata sotto la spinta di alberi cresciuti sotto la volta. Nel cortile alcune fromagere levano verso il cielo il loro enorme tronco la cui corteccia colpita dal sole luccica del biancore dell'acciaio o dei toni cupi dell'ottone. Dopo il successivo gopura c'è un altro cortile dove sulla destra un prasat si é conservato integro ma volgendo lo sguardo a sinistra si vede il prasat simmetrico e gemello che è stato letteralmente spogliato da un albero nato sulla cima e che ha insinuato le radici nella struttura in laterite facendo esplodere tutto il rivestimento di arenaria i cui blocchi giacciono sparsi al suolo. Sul muro della seconda cinta scende una enorme radice biancastra che incornicia una porticina da cui si accede alla galleria interna e qui si vede che le radici hanno dimensioni spaventose e nella loro ricerca di acqua si sono stese smisuratamente per incatenare la struttura costruita dall'uomo. Attraverso un sinuoso percorso dentro il corpo del gopura si arriva a un basso passaggio che porta a un piccolo cortile ai piedi del prasat principale e qui si ha la sensazione che un tempo sia avvenuto un immane cataclisma: colonne mozze, pietre ammonticchiate a terra, cespugli che emergono ovunque. Si penetra poi nei bui anditi del santuario e uscendo si trova ancora un cortile dominato dalle fronde di alte piante che hanno avvolto le torri e si entra poi in una oscura galleria tra le cui colonne pare di respirare il clima di un chiostro medioevale. Tornati alla luce del sole si entra in un cortile dove gli alberi coprono il cielo con i loro lunghi rami e stendono ovunque le possessive radici che stringono nel loro abbraccio un altro prasat. Si passa infine a fianco dell’alto muro della sala delle danze rituali e si giunge al terzo gopura Est che appare integro solo perché un altissimo albero lo ha avvolto e lo sostiene con le sue radici.
Dopo questa immersione nel mondo del fantastico, il rientro nel mondo reale avviene entrando in Banteay Kdei, un monastero buddhista che risale allo stesso periodo e ha molte analogie con Ta Prohm. Anche qui lo stato di abbandono era grave, ma ora è stato accuratamente restaurato. Come nei monasteri precedenti il luogo di culto occupa un piccolo spazio di soli 63 metri per 50 all’interno di un più vasto recinto di 700 metri per 500. Il muro di cinta è in laterite, agli angoli è decorato con altorilievi raffiguranti Garuda e i gopura sono identici a quelli di Ta Prohm. Un viale conduce a un terrapieno che valica il fossato e qui si ritrovano le consuete effigi di naga e leoni che ornano la terrazza che precede il gopura occidentale del terzo cortile chiuso da un muro di 320 metri per 300. Procedendo oltre, sempre tra il corpo di naga a balaustra, si arriva all'ingresso del luogo santo che è circondato da una galleria poggiante su muro pieno all'esterno e su colonne all'interno. La volta è in parte crollata e alcuni anditi sono stati in parte murati e questo fatto può avere fatto nascere l'idea che si trattasse di celle monacali, da cui è venuto il nome di Cittadella delle celle. Il cortile interno ha la forma di un chiostro cruciforme con una galleria che collega i quattro prasat angolari con gli altrettanti gopura dai quali partono altre gallerie che giungono al prasat centrale le cui pareti esterne sono alquanto grezze, ma anche in questo caso dobbiamo pensare che forse c'era un rivestimento in materiali deperibili ora scomparso. Ai suoi lati trovano spazio le usuali due biblioteche e così la struttura canonica è completa. Dopo le suggestioni del Ta Prohm e la maestosità del Prah Khan, Banteay Kdei può forse apparire deludente ma difficilmente si trova altrove un simile clima di pace e serenità veramente "buddhista".
Di fronte al tempio c’è un grande bacino rettangolare, lo Srah Srang che significa Bagno reale. Il nome è dovuto per le sue ragguardevoli dimensioni, misura 700 metri per 300, ma soprattutto per la regale imponenza della terrazza-imbarcadero posta sul lato ovest. E' una costruzione di grande effetto con i leoni e le plurime teste dei naga che sembrano dominare sulle acque che erano dedicate a qualche divinità il cui santuario ligneo era posto al centro del bacino su blocchi di arenaria che nella stagione secca emergono. Il basamento in pietra dell’imbarcadero era coperto da un padiglione circondato da un portico di legno e tre scalinate scendono al punto di approdo. Gli antichi Khmer, come i Cambogiani di oggi, pensavano che l'acqua rilassi il corpo e liberi la mente e lo spirito. Lava i mali dell'anima e guarisce quelli del corpo.
Anche Jayavarman VII era convinto di ciò e fece costruire un santuario, il Neak Pean, dove il malato era curato con l'acqua. Si dovrebbe dire che Neak Pean è un mebon come quelli posti al centro del Baray orientale e di quello occidentale perché è un santuario costruito su un isolotto artificiale di 350 metri di lato eretto al centro del Jayatataka, il Baray settentrionale. In realtà è un luogo talmente atipico e fuori da ogni schema architettonico che lo si può solo definire un "luogo sacro". La sola via di accesso è sul lato Nord dove il basamento dell'isolotto si apre su un vialetto che porta a una radura circondata dalla vegetazione. Neak Pean consiste in un bacino quadrato centrale di 70 metri di lato cui fanno corona altri quattro bacini di 25 metri di lato disposti sull'asse dei punti cardinali. Ora purtroppo i cinque bacini sono prosciugati. L'acqua compare solo durante la stagione delle piogge in quello centrale dove dal fondo emerge un basamento circolare di 14 metri di diametro la cui base è circondata dal corpo di due enormi naga con le teste levate a est e le code che si intrecciano sul lato opposto, da cui il nome di Neak Pean cioè I serpenti intrecciati. La piattaforma superiore è circondata da una corona di petali di fiore di loto che, piú piccola, si ripete alla base del prasat centrale dedicato al bodhisattva Lokeshvara. Sulle sponde corre un camminamento in arenaria dal cui bordo superiore emergono le volte di quattro cappelle il cui corpo si stende verso i bacini laterali mentre dei gradoni in arenaria scendono fino al livello delle acque Il Neak Pean era una replica del mitico lago Anavatapta le cui acque avevano il potere di guarire chiunque vi si immergesse. Qui il malato non scendeva nelle acque ma ne veniva asperso dai bonzi officianti in una delle quattro cappelle assiali la cui struttura in arenaria è decorata esternamente da bassorilievi aventi tutti come oggetto Lokeshvara. Un bonzo, all'esterno, raccoglieva l'acqua dal bacino centrale poi la faceva colare entro una vasca sormontata da un busto di donna in pietra. L'acqua passava in un condotto e fuoriusciva cadendo sul malato che era accovacciato su una pietra a forma di fiore di loto aperto, l'ultima delle quali è stata rubata nel 1999. Non sappiamo se ci furono vere guarigioni oltre alcune probabili per quei casi che oggi chiamiamo di malattie "psicosomatiche". Si può però pensare che fosse praticata una terapia antalgica di carattere spirituale. I celebranti erano dei bonzi, i malati erano dei buddhisti, il Buddha insegna che la sofferenza e la morte sono connaturate alla nascita e quindi inevitabili. Il dolore deve essere allora accettato e sopportato grazie alla fede e nella speranza di una liberazione finale. La statua posta nel bacino centrale davanti all'ingresso del prasat parrebbe confermare questa ipotesi di una terapia basata sulla fede religiosa. E' piuttosto rovinata ed è stata oggetto anche di recenti furti vandalici, ma si può intuire che raffigura il corpo di un cavallo a cui sono appesi degli uomini. E' Lokeshvara che nelle forme del cavallo Balaha porta in salvo il mercante Simhala e i suoi compagni che avevano fatto naufragio sulle coste di un'isola abitata da orchesse che si cibavano di carne umana. Il messaggio è esplicito: Lokeshvara lenisce il dolore degli uomini e li guida attraverso gli oceani delle esistenze fino alla salvezza, che qui è simboleggiata dal prasat. Acqua per curare, ma anche acqua per fare vivere l’economia del paese: Jayavarman VII ampliò e completò il grandioso sistema idrico che nutriva la città. Sotto il suo regno, i grandi baray immagazzinavano ogni anno oltre 360 milioni di metri cubi d’acqua destinata all’agricoltura e il complesso urbano di Angkor, con la sua cintura abitata che si estendeva in un quadrilatero di quaranta chilometri di lato, arrivò a ospitare un milione novecentomila persone.
Il Bayon è il tempio che celebra questa grandezza.
Non esiste in Angkor alcun santuario, neppure il più modesto, che non sia preceduto da un fossato e da un muro di cinta. Il visitatore che arriva davanti al Bayon non trova né l'uno né l'altro, perché il suo fossato è quello di Angkor Thom e la sua cinta e suoi gopura sono le mura e le porte della città. Questo aspetto già dà idea delle dimensioni universali che Jayavarman VII volle dare al suo tempio-montagna. Il Bayon è un tempio-montagna come Angkor Vat o il Baphuon, ma alla vista appare solo come una enorme montagna di pietra dai profili non definiti e dai contorni indifferenziati. Avvicinandosi la visione comincia a farsi più netta ma non appena si penetra all interno della prima cinta anche il visitatore più attento e munito di una accurata mappa non riesce a orientarsi. Siamo lontani dalla perfezione geometrica di Angkor Vat. Del Bayon non fu mai fatto un progetto. Jayavarman procedeva da un'idea e da una struttura iniziale poi ne ampliava il corpo a dismisura aggiungendo sempre nuove costruzioni e apportando continue varianti in corso d'opera. La struttura iniziale era un santuario con pianta a croce greca i cui angoli furono successivamente collegati da una galleria in modo tale da ottenere un rettangolo di 80 metri per 57 intorno al quale fu poi costruita una seconda galleria di 160 metri per 140. In seguito, il centro del dispositivo iniziale fu colmato con un massiccio basamento su cui poggia la terrazza da cui si leva il prasat centrale, alto 43 metri dal suolo. Su tutti i prasat, sulle cappelle, sui padiglioni furono infine costruite delle torri, in totale 54, con scolpito sui quattro lati il volto di Lokeshvara che volge il suo sguardo su tutti i punti cardinali per vedere tutte le sofferenze umane e porre rimedio a ognuna di esse. Quel volto però è anche il volto del sovrano che vede i bisogni della sua gente e per soddisfarli costruisce baray, nuove strade, ospedali, luoghi di sosta per i viandanti. E' un despota illuminato che non trascura però di volgere anche un vigile sguardo su ogni angolo del suo impero perché nulla si trami contro di lui. Questa identificazione materializza l'onnipresenza della divinità e quella del sovrano che sulla terra realizza le opere che attuano il misericordioso disegno divino. La sacralità di questo messaggio viene riflessa e amplificata dai volti scolpiti sui portali di Angkor Thom e sui gopura dei monasteri. Il linguaggio che parlano le sculture sui muri è diverso da quello di Angkor Vat. Diversi sono i temi trattati così come diverso è lo stile. Nel Vat è come se le immagini siano opera di un fotografo professionista che ha lavorato in studio, con comparse e costumi, usando una sofisticata attrezzatura. Nel Bayon, invece, le immagini sono state colte da un reporter, un Robert Capa dell'epoca, che con il solo aiuto della macchina fotografica fa un servizio da un paese in guerra. Lo schermo su cui sono proiettate le immagini è un muro alto 4,50 metri e scolpito fino a un'altezza di 3,50 che corre per 600 metri intorno al tempio. E' il muro di sostegno della prima galleria che sul lato esterno poggiava su un doppio colonnato. La volta è crollata perciò la luce inonda le pareti e la prima immagine è quella dell' esercito khmer che muove per dare battaglia ai Cham. Non è più l'impeccabile armata di Suryavarman II che sfilava perfettamente allineata. Questi sono soldati che marciano nella campagna, il passo non è cadenzato, il peso degli scudi si fa sentire, la fanfara tace, i comandanti sono seduti in groppa agli elefanti e mostrano uno sguardo attento a ciò che si vede davanti. E' un esercito raccogliticcio, si vedono anche dei cinesi ma è un vero esercito in guerra. Lo seguono le salmerie con elefanti e carri carichi di cibo, cacciatori e mercanti con la famiglia, beoni, allegre signorine: tutto il composito mondo che si muoveva al seguito di una armata medioevale. La scena è di un realismo spettacolare. Realismo che si ripete nel secondo quadro dove l'esercito torna vittorioso, qualcuno inneggia alla vittoria ma tutti i soldati hanno sul viso la piega triste di chi ha visto una grande strage in cui forse sono caduti anche i fratelli e gli amici. I comandanti non siedono più sugli elefanti che ora sono carichi di bottino. Vengono poi le immagini della città, di un palazzo, della sede dei commercianti, di una osteria e, al padiglione d' angolo, di un misterioso principesco edificio costruito su colonne il cui proprietario resta però ignoto perché il bassorilievo non fu completato come molti altri rimasti allo stato di abbozzo soprattutto sulla parte alta del muro. Il quadro diventa spettacolare nella parte est del lato sud. Qui è come se il reporter fosse salito sull'alto del phnom Krom e con l'aiuto di teleobiettivi e zoom spaziasse dalle rive fino al centro del lago dove infuria la battaglia navale fra le due flotte. I soldati vanno all'arrembaggio, molti sono colpiti e cadono in acqua dove vengono azzannati dai coccodrilli che si muovono tra una moltitudine di pesci. Poco lontano i pescatori gettano le reti mentre sulle rive la gente è intenta alle piccole cose della vita quotidiana e resta indifferente alla battaglia che si sta svolgendo. E' un grandioso affresco che con straordinaria immaginazione e spontaneità descrive la vita del popolo khmer che lavora, va a caccia, scommette sui combattimenti di galli, mangia, beve, vende il pesce al mercato mentre una donna partorisce e un timido giovanotto chiede una signorina in sposa. E' la vita di tutti i giorni che continua anche se poco lontano si affrontano schiere di armati e i soldati mangiano e si riposano nei loro accampamenti. Pare quasi che Jayavarman VII abbia voluto raccogliere su queste pareti tutto il suo popolo, lo abbia associato alla propria apoteosi ed eternato nella pietra. Si giunge al gopura Sud da dove di regola si entra per salire alla seconda galleria e alla terrazza del prasat centrale. Restano ancora centinaia e centinaia di metri di bassorilievi da percorrere dove ancora si parla di guerra, di ricostruzione e di vita quotidiana del popolo khmer. Le immagini dei bassorilievi non devono fare trascurare le delicate figure di apsara che, a gruppi di tre o allineate su un fregio, decorano colonne e architravi. Anche in questo caso lo stile è profondamente diverso da quello di Angkor Vat. Le apsara hanno abbandonato la loro statica perfezione delle forme e qui sembrano pervase da un intenso fremito di vita e di gioiosa vivacità. Da una scala si sale al gopura della seconda galleria da cui si raggiunge la piattaforma superiore dove si resta attoniti per quelli che sembrano mille volti in pietra il cui sguardo segue il visitatore ovunque si volga. Sono volti di profilo, sospesi in alto, posti in obliquo, frontali, e su tutti affiora un sorriso che pare dolce e incoraggiante ma che improvvisamente diventa amaro e di rimprovero se una nuvola passa e nasconde la luce del sole. I prasat minori, le torri e i vestiboli sono tutti scolpiti con immagini alte tra 1,75 e 2,40 metri la cui presenza é quasi ossessiva e tale da mettere in secondo piano l'enorme massa del santuario centrale. La torre ha una base ovoidale su cui si affacciano tredici cappelle a nicchia e sul lato Est una serie di vestiboli porta alla cella che conteneva il Santo dei Santi, una statua del Buddha, che fu ritrovata nel 1933. Una spoglia galleria corre intorno alla cella e la parete esterna è quasi nuda di ogni decorazione mentre il culmine appare tronco. Non era certo questo l'aspetto del tempio ai tempi di Jayavarman VII ma sicuramente la magica suggestione creata dai cento e cento volti in pietra è rimasta inalterata nei secoli.