Oltre un secolo dopo che il Ponhea Yat aveva deciso di abbandonare Angkor, sotto la crescente pressione degli eserciti siamesi, e spostare la capitale verso il centro del Paese, i sovrani suoi successori tentarono di rioccupare le province orientali cadute sotto il dominio della corte di Ayuthya e nel 1550 il re Ang Chan pose il campo in prossimità del Grande lago, non lontano dal vecchio sito di Angkor. Il luogo non era caduto nell' oblio. Angkor Vat era il più famoso monastero buddhista di tutta la regione ed era meta di continui pellegrinaggi. La prorompente vegetazione del Tropico aveva invece invaso e sommerso tutti gli altri templi e santuari. Anche le poderose mura di Angkor Thom erano sepolte da liane e rampicanti e tutta la superfice interna della "Grande cittá" non faceva piú apparire traccia alcuna del passato splendore. Durante una battuta di caccia, imbattendosi nei maestosi volti in pietra di Lokeshvara che misteriosi emergevano dall' intrico della vegetazione Ang Chan “riscoprì” la capitale dei suoi antenati. Passano però ancora ventisei anni prima che il suo successore, Reachea I, avendo fissato ormai stabilmente in prossimità di Angkor la base per le sue campagne militari contro i Siamesi, decida di far disboscare tutta l' area e riportare alla luce Angkor Thom. Vengono drenati i canali, riattivati i bacini, rimesse in uso le strade, e la cittá si ripopola e, finalmente, il re Satha riporta la corte nel luogo in cui avevano regnato i suoi antenati.
La terra di Cambogia non era però più "terra incognita" per gli Occidentali. Nel 1555 era giunto alla corte di Ang Chan, a Lovek, il primo missionario cattolico, il domenicano portoghese Gaspar da Cruz. I sovrani khmer non manifestarono mai alcuna intenzione di convertirsi ma riservarono una calorosa accoglienza ai missionari e il re Satha, in modo particolare, aveva ogni interesse a stabilire buoni rapporti con i Portoghesi di Malacca per trovare uno sbocco commerciale ai più pregiati prodotti del Paese, dei quali il trono deteneva il monopolio. Il re sapeva che i Portoghesi controllavano tutto il commercio marittimo e, inoltre, disponevano di armi e soldati che avrebbero potuto essere utili sia nella guerra contro il Siam, sia nelle continue e pericolose contese interne. Per questo motivo le porte della corte reale furono sempre spalancate per i missionari cattolici, anche quando questa si trasferí in Angkor. Fra gli altri, giunse anche, intorno al 1585, il frate cappucino portoghese Antonio da Magdalena che, sulla via del ritorno in patria, si fermò a Goa dove lasciò un ampio resoconto di ciò che aveva visto in Cambogia a Diego da Couto, il grande geografo e storico delle conquiste portoghesi in Asia nel XVI secolo. Diego da Couto integrò le informazioni ricevute da Fra' Antonio da Magdalena con i resoconti di altri viaggiatori e missionari. Scrisse un testo che avrebbe voluto inserire nella Sexta Decada da Asia, ma per cause non note questo capitolo non venne inviato a Lisbona. Diego da Couto lo aggiunse allora come Capitulo VI nei Cinco Livros da Duodecima Decada da Asia. Quando però il testo giunse a Lisbona negli uffici della censura ecclesiastica si ritenne che il Capitulo VI fosse già stato pubblicato nella Sests Decada e venne quindi archiviato. Nessuno si premurò di controllare, neppure l' autore che, morto nel 1616 a Goa, non ebbe comunque modo di vedere la sua opera pubblicata. La descrizione di Angkor restò quindi sepolta negli Archivi Nazionali di Lisbona per oltre quattro secoli e mezzo. Il testo venne ritrovato nel 1956 da C.R. Boxer che lo tradusse in inglese e lo presentò al XXIII Congresso internazionale degli Orientalisti, a Cambridge. Nel 1958, B.Ph. Groslier pubblicò a Parigi "Angkor et le Cambodge au XVI siècle, d'après les sources portugaises et espagnoles", che contiene il testo integrale del Capitulo VI : "il racconto inedito di Diego da Couto".
L' importanza di questo testo va al di là del mero interesse che possono suscitare le singolari vicende che ne hanno accompagnato la stesura e la mancata pubblicazione. Questo racconto su Angkor è oggi estremamente importante perché descrive la città tornata a vivere poco piú di un secolo dopo che era stata abbandonata nel 1432 e in larga parte conferma quanto aveva scritto nel 1296 il cinese Ceu Ta-kuan, così come dà preciso riscontro alle ipotesi ed alle ricostruzioni fatte dagli archeologi.
E' un documento oltremodo preciso, se confrontato con i racconti fatti da altri suoi contemporanei, ed è ancor più da apprezzare se si tiene conto del fatto che lui scrisse sulla base di informazioni ricevute da altre persone, come Fra' Antonio da Magdalena. L'avere scritto su informazioni riportate può spiegare anche alcun inesattezze o passi non molto chiari come, ad esempio, là dove si parla delle imbarcazioni che portano in città, porta a porta, derrate e legno. Parrebbe, dal testo, che queste passino dai fiumi esterni ai canali interni alla città. Sappiamo che ciò non è possibile perché Jayavarman VII, quando fece erigere le mura di Angkor Thom, ebbe cura che non fosse assolutamente possibile penetrare nella città percorrendo il sistema di canalizzazione delle acque, come avevano fatto i Cham nel 1177. Altre inesattezze sono reperibili, quà e là, nel testo, ma non inficiano minimamente il valore del documento, ove Diego da Couto riafferma anche il suo rigore di storico. In molti testi, anche successivi, la fondazione di Angkor viene spiegata dando credito alle più strampalate dicerie e credenze popolari che chiamano in causa, di volta in volta, Alessandro Magno o il dio Indra, l'imperatore Traiano o l'artigiano celeste Lu Pan, oppure gli Ebrei di Cina. Diego da Couto anticipa i tempi della ricerca scientifica fatta tre secoli piú tardi dalla École Francaise d' Extreme-Orient e si affida alla testimonianza epigrafica per affermare che "questa città, questi templi e altre cose, di cui parleremo, furono costruite per ordine di venti re e che settecento anni furono dedicati a tale opera".
Se pensiamo che scrisse solo facendo conto sulle testimonianze che aveva raccolto, si deve riconoscere che non era giunto troppo lontano dalla verità.